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Non sono razzista, però...

Il recente vento di rivolta che spira in tutto il nord Africa, e che ha portato in Libia a un sanguinoso conflitto interno e poi a un ormai definibile “classico” intervento dei Paesi “civili” occidentali, approvato sia dalla destra sia dalla sinistra italiana, ha portato fra le prime conseguenze una massiccia onda di immigrazione verso le coste europee. Essendo a un passo dallo scenario di questa tragedia umanitaria, ovviamente le coste siciliane (in particolare quelle dell'isola di Lampedusa) sono state la meta di centinaia di profughi. Per far fronte alla situazione, oggettivamente difficile per un'isoletta del Mediterraneo, i vari enti locali italiani si sono detti disponibili ad accogliere una parte di tali disperati.
È corsa la voce, supportata dal più “autorevole” quotidiano sardo, che anche il Comune di San Gavino avesse dato la propria disponibilità. Leggendo l'articolo, la mattina presto mi è venuto da pensare: “Ecco, finalmente l'occasione per dimostrare di essere un paese accogliente e solidale”. Una pia illusione, sfumata qualche ora dopo, quando sul più noto dei social network mi sono imbattuto in alcuni commenti su questa notizia. Commenti che non mi spaventa accostare alla più becera propaganda leghista.
“Pensiamo prima ai nostri compaesani bisognosi”, “Già non c'è lavoro per noi, figuriamoci spendere soldi per loro”, “Li mandino a Villacidro o a Sanluri ma non qui”, “All'estero noi italiani veniamo trattati male, non vedo perché io dovrei trattare bene loro” e tanti altri commenti del genere danno un'idea abbastanza precisa di come la paura del diverso e l'egoismo alberghino nel cuore di una gran parte dei nostri compaesani. Il tutto condito dal luogo comune preferito da chi fa questi discorsi “Io non sono razzista, però....”. Le argomentazioni a supporto di queste teorie sono vuote, basate sul pensare al proprio orticello sperando di non doversi trovare, un giorno, in situazioni simili; oppure sul terrore, basato su ragionamenti al limite della fantascienza, secondo i quali TUTTI i profughi siano in realtà dei malviventi fuggiti dalle carceri nordafricane che non cercano altro che un nuovo terreno sul quale installare il proprio impero criminale.
Personalmente, e a nome della redazione di Agitòriu e di tutta l'associazione Kenemèri, non posso fare altro che stigmatizzare questi ragionamenti, queste prese di posizione degne di movimenti xenofobi e razzisti. Provo enorme tristezza nel vedere che dei principi come quello dell'accoglienza e della solidarietà, pilastri della mia formazione personale, abbiano lo stesso valore della carta igienica per molti dei miei compaesani. E ne provo vergogna.
Ho sperato di vedere realizzata una convivenza civile basata su questi principi. Ritengo che dimostrarsi solidali con chi sta vivendo situazioni a dir poco tragiche debba essere un obbligo morale che vada al di là di ogni egoismo e paura: questi sono i veri problemi, non la distinzione tra “rifugiati libici” e “clandestini tunisini”. Chi in queste ore sta scappando dal proprio Paese lo fa per salvarsi da una situazione terribile e per cercare delle condizioni di vita migliori.
Il rispetto per la loro situazione deve portarci ad accoglierli, e, una volta accolti, a non bollarli come delinquenti a priori. Il reato di clandestinità va contro ogni logica storico-sociale e rende un criminale chiunque sia talmente disperato da affidarsi a un barcone pur di migliorare la propria vita.
Rinchiudere questi disperati in tendopoli in cui manca tutto, veri e propri campi di concentramento, è parimenti segno di inciviltà. E non c'è da stupirsi se qualcuno tenta di fuggire o addirittura di delinquere. L'esasperazione è un sentimento difficile da controllare. La fame altrettanto.
Penso che sarebbe molto più semplice se i migranti (e questo vale per tutti, sia gli italiani o i sardi che soprattutto nel '900 hanno lasciato la propria casa, sia per i nordafricani che arrivano in questi giorni qui da noi) fossero accolti con sentimenti diversi dalla diffidenza, dalla paura, dall'ignoranza e dall'odio. Si ha paura che chi arriva ci porti via quel poco che abbiamo, ma è un problema culturale ancor prima che economico: se fossimo pronti a metterci in discussione, a condividere le risorse e le esperienze forse potremmo tendere a una convivenza pacifica e rispettosa. Senza dover cadere nell'ipotesi della creazione di una cultura universale, che fortunatamente non può esistere, ma arricchendoci col confronto. La diversità è la vera ricchezza, che, unita al rispetto può portare alla soluzione di situazioni difficili come quella che si sta vivendo in queste settimane.
A distanza di poche ore dall'aver letto la notizia, è arrivata la smentita della voce riguardante la disponibilità data da S. Gavino; il primo pensiero che ho avuto è che abbiamo perso una grande occasione di renderci UTILI.

Stefano Pau

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