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In quel di Cagliari vi è un'associazione culturale, i Figli d'arte Medas, che da anni portano avanti iniziative più che valide.
Nello specifico, nei mesi di Ottobre e novembre del 2010 hanno portato in scena la seconda edizione di "Tutti i colori del buio", una serie di rappresentazioni teatrali contraddistinte da narrazioni a tinte scure e gotiche che già l'anno precedente aveva avuto un buon seguito. Il primo spettacolo, dal titolo"Fuoco e fiamme" è liberamente ispirato al fumetto di James O' Barr "The Crow". Tutti conosciamo la storia, complice lo smisurato successo che ebbe il film che ne fu tratto nel 1994 diretto da Alex Proyas.
Ma veniamo allo spettacolo. La scenografia si presenta scarna, a farla da padroni sono i musicisti del gruppo Skull Cowboys (Mario Pierno-chitarra elettrica, Andrea Congia-chitarra classica, Fabio Desogus- tastiere, Marco Loddo- basso elettrico, Michele Sanna-batteria) disposti sul palco davanti ad un telo illuminato da luci scarlatte, anche loro illuminati ma con tonalità più fredde, il tutto volto probabilmente a dare maggior risalto alla storia e all'espressività degli attori che calcano il palco. Personaggio principale di questa opera rock è Gianluca Medas narratore della storia, una personalità eclettica, un attore capace di tenere inchiodato lo spettatore con lunghi ma coinvolgenti monologhi, ora claustrofobici, ora cullanti, ma mai noiosi.
Di pari importanza è la musica, che si snocciola su tessuti imprevedibili, morbidi o duri, sognanti o acidi, e che segue a ogni passo la narrazione, donandole una forza spaventosa. Anche i generi toccati nelle composizioni sono eterogenei, sempre rock, ma con diverse venature ad ogni intermezzo musicale. Un po' progressive, un po' hard, un po' melodici.
Guardando il palco ci si aspetta un esercito di attori a portare avanti una storia senza tempo e senza spazio. Ma non ci sono. Gli attori sono pochi ma l'effetto è lo stesso. Il già citato Gianluca Medas, Noemi Medas, e la piccola Gloria Medas. Non tutto è come appare. Il racconto prosegue su delle linee quasi classiche, ma comunque intrise di una reinterpretazione minimale che non fa perdere la bellezza dello stesso. Sembra quasi di trovarsi nel bel mezzo di una corsa in cui tutti gli avvenimenti si susseguono a suon di musica, e lo spessore narrativo è ribadito da frasi e suoni ricorrenti.
Non deludono quindi i Figli d'arte Medas, autori e interpreti dell'ennesimo lavoro ben strutturato e carico di pathos. Grazie anche all'aiuto delle ottime musiche e del lavoro dietro il mixer di Villy Cocco, dei costumi ad opera di Federica Demontis, e del trucco di Veronica Frau.
Insomma un unione di talenti per una bella espressione artistica nell'ormai arido panorama sardo. Abbiamo bisogno di iniziative del genere, che diano maggior risalto alle capacità e alla creatività dei nostri artisti. "Tutti i colori del buio" è tutto questo, uno spiraglio di vitalità, una boccata di aria fresca, con la speranza che continui nel tempo e dia il via ad altre iniziative.
Camilla Fois
Nello specifico, nei mesi di Ottobre e novembre del 2010 hanno portato in scena la seconda edizione di "Tutti i colori del buio", una serie di rappresentazioni teatrali contraddistinte da narrazioni a tinte scure e gotiche che già l'anno precedente aveva avuto un buon seguito. Il primo spettacolo, dal titolo"Fuoco e fiamme" è liberamente ispirato al fumetto di James O' Barr "The Crow". Tutti conosciamo la storia, complice lo smisurato successo che ebbe il film che ne fu tratto nel 1994 diretto da Alex Proyas.
Ma veniamo allo spettacolo. La scenografia si presenta scarna, a farla da padroni sono i musicisti del gruppo Skull Cowboys (Mario Pierno-chitarra elettrica, Andrea Congia-chitarra classica, Fabio Desogus- tastiere, Marco Loddo- basso elettrico, Michele Sanna-batteria) disposti sul palco davanti ad un telo illuminato da luci scarlatte, anche loro illuminati ma con tonalità più fredde, il tutto volto probabilmente a dare maggior risalto alla storia e all'espressività degli attori che calcano il palco. Personaggio principale di questa opera rock è Gianluca Medas narratore della storia, una personalità eclettica, un attore capace di tenere inchiodato lo spettatore con lunghi ma coinvolgenti monologhi, ora claustrofobici, ora cullanti, ma mai noiosi.
Di pari importanza è la musica, che si snocciola su tessuti imprevedibili, morbidi o duri, sognanti o acidi, e che segue a ogni passo la narrazione, donandole una forza spaventosa. Anche i generi toccati nelle composizioni sono eterogenei, sempre rock, ma con diverse venature ad ogni intermezzo musicale. Un po' progressive, un po' hard, un po' melodici.
Guardando il palco ci si aspetta un esercito di attori a portare avanti una storia senza tempo e senza spazio. Ma non ci sono. Gli attori sono pochi ma l'effetto è lo stesso. Il già citato Gianluca Medas, Noemi Medas, e la piccola Gloria Medas. Non tutto è come appare. Il racconto prosegue su delle linee quasi classiche, ma comunque intrise di una reinterpretazione minimale che non fa perdere la bellezza dello stesso. Sembra quasi di trovarsi nel bel mezzo di una corsa in cui tutti gli avvenimenti si susseguono a suon di musica, e lo spessore narrativo è ribadito da frasi e suoni ricorrenti.
Non deludono quindi i Figli d'arte Medas, autori e interpreti dell'ennesimo lavoro ben strutturato e carico di pathos. Grazie anche all'aiuto delle ottime musiche e del lavoro dietro il mixer di Villy Cocco, dei costumi ad opera di Federica Demontis, e del trucco di Veronica Frau.
Insomma un unione di talenti per una bella espressione artistica nell'ormai arido panorama sardo. Abbiamo bisogno di iniziative del genere, che diano maggior risalto alle capacità e alla creatività dei nostri artisti. "Tutti i colori del buio" è tutto questo, uno spiraglio di vitalità, una boccata di aria fresca, con la speranza che continui nel tempo e dia il via ad altre iniziative.
Camilla Fois
L'Associazione Culturale “Chine Vaganti” nasce nel 1997, a San Gavino Monreale, con l'intento preciso di divulgare la cultura che si nasconde dietro un semplice fumetto; da anni partecipa, attraverso i suoi iscritti, i suoi artisti, a numerosi incontri e conferenze e si prodiga da sempre nel difficile compito del diffondere alla cittadinanza, e non solo, la conoscenza del lavoro, dell'impegno e della passione che servono per creare il fumetto. Tra le varie pubblicazioni dell'Associazione, spicca, quest'anno, quella speciale dell'ottavo numero della serie “Macchie d'inchiostro”. E spicca non solo per l'ennesimo traguardo raggiunto dai soci, ma anche per l'importante evento che accompagna questa nuova pubblicazione: la nascita e la produzione di un film legato alle storie presenti in questo numero.
Un evento voluto fortemente dal Gruppo Cinema, nato tre anni fa, proprio per questa produzione. Il film in questione, intitolato “Macchie”, è stato prodotto nel 2008 ma solo ora ha avuto l'occasione di presentarsi al grande pubblico, in occasione della fiera annuale Lucca Comics&Games.
Diretto dal serramannese Christiano Pahler, il film ripercorre cinque storie ripescate dal ricco archivio dell'associazione e pubblicate nei numeri passati della rivista. Un numero speciale come speciale è il suo risultato. Scelte personalmente dal regista, le storie affrontano temi diversi ma legate da un filo conduttore: la rappresentazione della civiltà, attraverso i suoi limiti e le sue contraddizioni. Un groviglio di emozioni contrastanti che attraversano la pagina scritta per colpire direttamente il lettore e, in questo caso, contemporaneamente, lo spettatore.
Un lungometraggio totalmente auto prodotto dall'associazione stessa e dal regista, il quale, per dare una forma cinematografica ad ogni tavola ha attinto ispirazione da vari maestri del cinema contemporaneo e passato: così si passa da un enigmatico episodio alla David Lynch a un più diretto e grottesco capitolo che sembra uscire dalla mente di George Romero, da Besson a Tarantino e così via.
Gli attori che vi troverete davanti sono tutti non professionisti, persone che si sono messe in gioco, tutti compaesani del giovane regista. E a loro si è affiancato un intero paese, Serramanna, sfondo di ogni racconto e di ogni fotografia.
Un film che è una rappresentazione della filosofia del fumetto: il bianco e nero, l'immagine volutamente sporca di alcuni frame.
Ed è un prodotto tutto made in Sardegna: oltre agli attori, anche le musiche sono state composte, appositamente per il film, da gruppi e artisti sardi, alcuni dei quali proprio nati e cresciuti a San Gavino Monreale.
Insomma, ci sono mille ragioni per acquistare il numero speciale di Macchie d'inchiostro. Al di là del semplice, ma pur sempre molto importante, motivo economico, vi è quello ancora più importante della passione; passione che spinge da anni le persone che stanno dietro questi lavori, a creare e non fermarsi mai, a coltivare ancora e sempre di più le loro idee. E in un momento in cui la cultura attraversa uno dei suoi più pericolosi momenti d'arresto è fondamentale coccolare iniziative di questo tipo, e coccolare altresì i loro autori. La voglia di non arrendersi e di continuare a credere in quello che fanno li ha spinti ad affrontare questa nuova avventura, perché, come dice Daniele Mocci (socio fondatore): «i fumetti da sempre rappresentano la nostra via maestra: ma non siamo solo fumettisti, siamo semplicemente appassionati di comunicazione in tutte le sue sfaccettature». Una sfida vinta grazie al numeroso pubblico che ha partecipato alle anteprime del film, che non può far altro che ampliare la voglia di diffondere l'arte del fumetto in forme sempre nuove. Una gara che non si ferma certo a questo primo traguardo! Il Gruppo Cinema è oggi al lavoro su un nuovo film e un cortometraggio.
Non mi resta che augurarvi buona lettura. . . e buona visione!
E buona fortuna a tutta l'Associazione Culturale “Chine Vaganti”.
Valentina Fois
Un evento voluto fortemente dal Gruppo Cinema, nato tre anni fa, proprio per questa produzione. Il film in questione, intitolato “Macchie”, è stato prodotto nel 2008 ma solo ora ha avuto l'occasione di presentarsi al grande pubblico, in occasione della fiera annuale Lucca Comics&Games.
Diretto dal serramannese Christiano Pahler, il film ripercorre cinque storie ripescate dal ricco archivio dell'associazione e pubblicate nei numeri passati della rivista. Un numero speciale come speciale è il suo risultato. Scelte personalmente dal regista, le storie affrontano temi diversi ma legate da un filo conduttore: la rappresentazione della civiltà, attraverso i suoi limiti e le sue contraddizioni. Un groviglio di emozioni contrastanti che attraversano la pagina scritta per colpire direttamente il lettore e, in questo caso, contemporaneamente, lo spettatore.
Un lungometraggio totalmente auto prodotto dall'associazione stessa e dal regista, il quale, per dare una forma cinematografica ad ogni tavola ha attinto ispirazione da vari maestri del cinema contemporaneo e passato: così si passa da un enigmatico episodio alla David Lynch a un più diretto e grottesco capitolo che sembra uscire dalla mente di George Romero, da Besson a Tarantino e così via.
Gli attori che vi troverete davanti sono tutti non professionisti, persone che si sono messe in gioco, tutti compaesani del giovane regista. E a loro si è affiancato un intero paese, Serramanna, sfondo di ogni racconto e di ogni fotografia.
Un film che è una rappresentazione della filosofia del fumetto: il bianco e nero, l'immagine volutamente sporca di alcuni frame.
Ed è un prodotto tutto made in Sardegna: oltre agli attori, anche le musiche sono state composte, appositamente per il film, da gruppi e artisti sardi, alcuni dei quali proprio nati e cresciuti a San Gavino Monreale.
Insomma, ci sono mille ragioni per acquistare il numero speciale di Macchie d'inchiostro. Al di là del semplice, ma pur sempre molto importante, motivo economico, vi è quello ancora più importante della passione; passione che spinge da anni le persone che stanno dietro questi lavori, a creare e non fermarsi mai, a coltivare ancora e sempre di più le loro idee. E in un momento in cui la cultura attraversa uno dei suoi più pericolosi momenti d'arresto è fondamentale coccolare iniziative di questo tipo, e coccolare altresì i loro autori. La voglia di non arrendersi e di continuare a credere in quello che fanno li ha spinti ad affrontare questa nuova avventura, perché, come dice Daniele Mocci (socio fondatore): «i fumetti da sempre rappresentano la nostra via maestra: ma non siamo solo fumettisti, siamo semplicemente appassionati di comunicazione in tutte le sue sfaccettature». Una sfida vinta grazie al numeroso pubblico che ha partecipato alle anteprime del film, che non può far altro che ampliare la voglia di diffondere l'arte del fumetto in forme sempre nuove. Una gara che non si ferma certo a questo primo traguardo! Il Gruppo Cinema è oggi al lavoro su un nuovo film e un cortometraggio.
Non mi resta che augurarvi buona lettura. . . e buona visione!
E buona fortuna a tutta l'Associazione Culturale “Chine Vaganti”.
Valentina Fois
Finalmente ho tra le mani l’Ep dei Terrorway, neonata metal-band Sangavinese, che da un anno a questa parte solca i palchi di mezza Sardegna. La band è composta da quattro componenti: Ivan Fois alla chitarra, Giovanni Serra “Giovi” al basso, Cosma Secchi “Cosma” alla batteria e Anselmo “Memo” Mascia alla voce. Tutti e 4 hanno avuto diverse esperienze precedenti alla formazione dei Terrorway, e tutti dimostrano di avere doti tecniche decisamente fuori dal comune. Ma veniamo all’Ep, il cui titolo è “Absolute” .
In una gelida serata di Dicembre butto il cd dentro il mio Notebook e lo ascolto tutto d’un fiato. Cinque tracce dirette come un pugno in faccia. Si parte con “Her last breath”. Ritmi e tempi serrati, meccanici di indubbia scuola Mnemic, ma con una decisa dose di personalità, soprattutto grazie al cantante, che spazia agevolmente tra diversi registri vocali e uno screaming che ricorda il Phil Anselmo dei tempi migliori . Il pezzo scorre liscio, forse un po' ripetitivo, fino alla parte solista dove le doti tecniche e creative di Ivan prendono il soppravvento. Buon pezzo.
Prossimo al congelamento proseguo con l’ascolto del pezzo successivo: “Art of discernment”. Si parte con una “raffica” di batteria, che fa da preludio a un pezzo decisamente pesante e più dinamico, dove si intrecciano diverse idee compositive, che la band ha amalgamato in un'unica traccia. Un brano fatto di luci e ombre che dà il massimo di sé dalla parte solista in poi, fino a chiudersi con una parte melodica veramente bella che forse avrebbe meritato più spazio nella struttura del brano. Promosso a metà. Arriviamo a metà dell’EP con la terza traccia: “Survivalist istinct”. Un pezzo che per stile e struttura richiama il primo brano (“Her last breath”) ma meno ripetitivo. Ciò che colpisce è la presenza di poliritmie e intrecci ritmici contorti che richiamano i blasonati Meshuggah. Il pezzo appare diviso in due sezioni ( forse eccessivamente “scollegate” l’una dall’altra), sicuramente una scelta a livello di composizione ma che forse andava gestita un po’ meglio. Promossa a metà.
Con metà corpo ghiacciato mi avvio all’ascolto delle ultime due traccie.
“Threshold of pain”. Direi la canzone migliore dell’intero EP. Violenta, tecnica, precisa, melodica e abbastanza originale. Un gran bel pezzo. Promosso a pieni a voti e con lode, grazie anche una parte solista in cui batteria, basso e chitarra danno il meglio di sé. E arriviamo alla fine. “Substance of the way”. Anche questa traccia merita la promozione a pieni voti. Ritimica pesante, coinvolgente e serrata come il metal-moderno comanda. Il tutto farcito da una bella prestazione del bassista e dall’ennesima dimostrazione di forza di Ivan e della sua Schecter. In conclusione, posso dire che è sicuramente un ottimo Ep. La band si esprime al massimo delle sue potenzialità dimostrando di padroneggiare ciascuno il proprio strumento in maniera egregia facendo sembrare tutto abbastanza fluido e orecchiabile. Tuttavia è ancora evidente una certa “acidità” a livello puramente compositivo; tante buone idee, tanta competenza tecnica e musicale che probabilmente troverà la completa maturazione nel futuro Album. Insomma, una ventata di novità e “coraggio artistico” nel triste panorama musicale paesano e regionale, che segna un ritorno di prepotenza del metal “Made in San Gavino”. Aspetto con trepidazione l’uscita di un Album completo, facendo, nel frattempo, i miei complimenti ai Terrorway per l’ottimo lavoro!.
Rock on!!!!
Massimo Manno
Intitolare una via di Cagliari a Sergio Atzeni. E non una via di periferia o marginale. Eliminare dal salotto del centro il nome di Vittorio Emanuele, simbolo di un'eredità sabauda che continua a segnare la vita socio-politica sarda, e sistemare al suo posto quello di uno dei più apprezzati fra i poeti che hanno cantato “la città bianca” nel corso del '900. Probabilmente il più sfortunato tra loro, quello che trova la morte poco più che quarantenne nelle acque dell'isola di San Pietro.
La scritta che appare su un muro del Corso Vittorio Emanuele può essere sembrata a molti una provocazione. Per alcuni, i più sensibili forse, potrebbe essere un disperato appello affinché venga riconosciuto il talento e valorizzato il nome di uno dei geniali, seppur sfortunati, figli del sud Sardegna.
Uno scrittore puro, che ha raccontato le storie di tossici di Is Mirrionis e delle smaliziate bambine di S.Elia; che ha narrato di viaggiatori mediorientali e africani approdati al porto, di minatori anarchici di Montevecchio spariti nel nulla, di scioperi, di inquisizione spagnola e di giovani disadattati sardi costretti ad emigrare. Ma soprattutto lo scrittore che ha saputo raccontare la millenaria storia sarda con una delicatezza e un velo di disilluso romanticismo che nessuno aveva mai usato e che difficilmente qualcuno potrà riciclare in futuro. Passavamo sulla terra leggeri è il romanzo che dovrebbe essere incluso nei programmi didattici delle scuole medie sarde, nelle quali la cultura sarda ha ancora troppo poco spazio. È la felice sintesi di Storia con la S maiuscola e la più fine arte letteraria: Atzeni inventa, trasforma, crea una narrazione sul canovaccio del reale scorrere dei secoli nella nostra isola rendendo vivi i S'ard, il popolo dei danzatori delle stelle, e incarnandosi nel cantore incaricato di trasmettere la loro storia ai posteri. E lo fa con una lingua nuova per la letteratura: una lingua che mescola il rigore dell'italiano con l'espressività dell'italiano regionale, con i colori della lingua sarda e con echi e monosillabi di una lingua primordiale, a noi sconosciuta, ma per la quale non esiste la necessità di glosse o note esplicative. Di questo sono fatti i romanzi, i racconti e le poesie di Sergio Atzeni: di una modulazione narrativa che richiama i ritmi dell'oralità. Un linguaggio che, come i S'ard, “passa sulla terra leggero come acqua, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli...”: un linguaggio che arriva dritto al cuore del lettore. Tutto questo sarebbe sufficiente per intitolare una strada a “Sergio Atzeni (1954-1995), scrittore”.
Stefano Pau
Era il 4 Marzo 2010 quando siam partiti, alle prime ore del mattino, dall'aeroporto di Cagliari;
poi Roma, scalo a Tripoli con la compagnia aerea Afriqiyah e infine Accra.
“Cosa porteresti con te se dovessi restare un mese in Ghana?” Io, ad esempio, ho infilato la mia chitarra classica in una borsa da trekking! Ma già il personale dell'aeroporto di Cagliari, dopo un attimo di sconcerto, mi ha consigliato di toglierla da lì e di portarla con me; avrebbero chiuso un occhio... così la mia chitarra nuda e senza custodia è stato il mio anomalo bagaglio a mano per tutti gli scali.
Sbarcati a Tripoli ci incanaliamo nella fila per mostrare biglietti e passaporto, l'addetto ai controlli vede la mia chitarra e ride: -Oh! Carlos Santana!!! Ahahaah! Play, play!-
Attraversiamo un lungo corridoio in cui il personale posto ai lati indossa un camice bianco e ci guarda incuriosito; alcuni indicano la mia chitarra ridendo, ma il tutto ricorda un ambiente un po' ospedaliero. Il corridoio conduce nella sala d'attesa in cui è esposto un grande dipinto del presidente libico Muammar al-Gheddafi, e anche alcuni negozietti portano il suo nome. La cosa più bella della sala d'aspetto (oltre alla sala/scatola fumatori 1 x 3m) sono le persone:
una patchanka di genti, barbe, kefieh, neri, bianchi, burqa, suoni, lingue, accenti....uomini e donne da tutto il mondo che incrociano per un po' le loro vite in quel limbo, e il fatto di essere anche io in quel calderone mi diverte!
C'è una donna marocchina che sentendoci parlare in Italiano mi racconta di esser stata da “noi” per 13 anni e di essere diventata amica di una vicina di casa italiana, ma che ora sta tornando a casa dai figli.
L'altoparlante annuncia l'imbarco per Accra: nuova fila, passaporto, chitarra in mano – hello Santana!- e finalmente il nostro ultimo viaggio in aereo per quel giorno.
Dopo più di quattro ore di volo, passate tra entusiasmo, stanchezza e VOGLIA DI FUMARE, finalmente arriviamo ad Accra; scesi dall'aereo, le parole più chiarificatrici vengono pronunciate da Simone: “Ayò, basta! Torniamo a Cagliari che qua c'è troppo caldo!”
All'aeroporto per prima cosa ci fanno compilare dei documenti; io mi distinguo subito tra gli altri compagni per il mio Magic English fatto di gesti e dal continuo intercalare: - Eeeehhh????
Stanchezza, afa, inglese, - cosa cazzo ci faccio con una chitarra in mano?- caldo,
c a a a a a l d o, camicia in flanella legata alla vita....
Faccio per consegnare il documento alla scazzatissima addetta allo sportello e mentre cerco inutilmente nel vocabolario la parola “bagaglio a mano” (visto che il mio trick col genitivo sassone: “ bag's hand” risultava essere stranamente incomprensibile!..) ecco che il mio cellulare cade dal taschino della giacca e si spatascia per terra.....rotto! Cazz!
Ad attenderci fuori c'è il nostro caro amico Cyprus componente ghaneano di (S)cambiare.
Saliamo con lui su un furgoncino rosso e ci dirigiamo verso un piccolo albergo a pochi chilometri di distanza .
Cyprus, che era partito qualche giorno prima per organizzare il nostro arrivo, ha già prenotato le stanze.
Finito di scaricare i bagagli siamo stanchi e zuppi di sudore; e immediatamente dopo esserci fatti una doccia siamo stanchi e nuovamente zuppi di sudore... c'è decisamente c a a a l d o! ( continua...)
Antonio Matzeu
“perché non scrivi un articolo sul viaggio che hai fatto in Ghana? ne hai parlato cosi tanto che potremo scriverlo noi...”
A questa domanda non potevo che rispondere positivamente e con grande entusiasmo perché sono tantissime le cose che vorrei condividere di questa esperienza ... poi mi accingo a mettermi davanti al foglio bianco... e vinco il blocco della prima pagina con un pensiero che mi viene in mente: cosa ha rappresentato per me? Perché ho scelto di vivere questa esperienza? Cosa significava per me il Ghana prima di partire e cosa significa ora? Sì, perché per me parlare di questo viaggio non vuol dire solo raccontare del mese vissuto là, significa anche parlare della prima volta in cui ho riflettuto su questa possibilità, del modo in cui questa possibilità è divenuta realtà e significa anche tirar le somme di quel che rimane dopo il ritorno.
Per questo motivo riassumere tutto in un articolo mi fa sentire come se dovessi travasare un bottiglione di vino in un bicchiere di plastica, e temo di non farcela, continuo a scrivere ciò che mi passa per la mente, raccontando della mia inibizione nel raccontare.
Lo faccio perché questa difficoltà è una parte preponderante di quel che mi è rimasto... e forse anche per questo, il modo migliore per iniziare il racconto, è proprio la fine del viaggio, quando il 6 aprile 2010 siam tornati in Italia.
Si, mi piace partire da questo punto, dalla mia sensazione di smarrimento nel sentire parlare dopo un mese la lingua italiana, dalla sensazione di alienazione dal contesto avuta all'aeroporto di Roma, come se fossimo stati lontani una vita dalla nostra vera vita, tanto da sentirci quasi fuori posto. Ovviamente questa forte sensazione è durata pochissimo, è bastato il suono di un altoparlante, poi comprare un giornale all'edicola, bere un caffè al bar, una pizzetta alla stazione di Civitavecchia, tornare a casa e riconoscerne l'odore, accarezzare il mio gatto, vedere gli amici e bere con loro...
Son bastate solo manciate di piccole quotidianità a catapultarmi in poco tempo nuovamente nel mio spazio e nel mio status di paranoico studente fuori corso.
Il ritorno alla routine è stato cosi rapido che, a distanza di qualche giorno, il viaggio sembrava quasi un sogno più che un'esperienza, ma nonostante questo, quel che ancora mi colpisce è quella sfuggente sensazione di smarrimento e di estraneità provata all'aeroporto, cosi effimera eppure cosi vera.
Come è possibile? Basta un mese in Africa per sentirsi Sperduti in una realtà che invece si conosce da venticinque anni? Come è possibile sentirsi fuori posto quando si torna a casa? - E' solo il prezzo della suggestione!- almeno cosi mi dico ogni tanto...ma sarà vero?
Ora sto scrivendo del viaggio a mesi e chilometri di distanza dal Ghana, ora parlo del viaggio da casa mia ed è facile razionalizzare tutto, è troppo facile ridurre tutto a “suggestione”.
Voglio essere sincero, probabilmente son partito più per la voglia di scappare che per la voglia di conoscere,ma qualcosa durante il viaggio è cambiata... (continua)
Antonio Matzeu
Il tennis era silenzio... i gesti, le espressioni..
si sentiva solamente il rumore della palla
contro la racchetta, il rimbalzo e basta.
Adriano Panatta
Introspezione. Questa è la prima parola che mi è venuta in mente a visione ultimata del docu-film "La maglietta rossa" di Mimmo Calopresti (2009). Ma non è l'unica parola applicabile, non può essere l'unica, perché all'interno di questa pellicola sono riscontrabili temi mutevoli e importanti. Il fulcro della storia si svolge nel 1976 durante la finale di Coppa Davis in Cile, allora affossato dalla dittatura del generale Pinochet; in quella occasione Adriano Panatta e il suo compagno di squadra Paolo Bertolucci, decidono di usare una maglietta rossa. La maglietta rossa è un segno di protesta, è un simbolo, contro quel golpe che vide morire Salvador Allende (nel 1973) e lasciò il Cile in balia dell'oppressione.
Ma il film non parla solo di questo, in realtà è un susseguirsi di filmati dell'epoca, di interviste, di testimonianze di quel clima, anche di chi era contrario a quel gesto che tanto fece discutere. "Pinochet sanguinario, Panatta milionario" era lo slogan che riecheggiava allora. Ma oggi passa veloce dinanzi agli occhi, se paragonato a quello che realmente suscitò in tutto il mondo quel gesto audace e discusso. L'inizio ci offre delle immagini random e una vecchia esibizione dei Ribelli con "pugni chiusi", un messaggio di Allende al popolo prima di essere assassinato, filmati dei disordini sbocciati in Italia. Va avanti così, tra il tennis (quello di una volta) e la politica, con interviste a personaggi come Paolo Villaggio, la storia sfuma fino alle immagini su cui si basa la storia, il bianco e nero, con in risalto solo ed esclusivamente la maglietta rossa.
Calopresti è un abile giocatore in regia, riesce a tessere una tela complessa attorno al protagonista che racconta sé stesso. Il gioco di immagini è lento e sapientemente articolato, il risultato emoziona.
A questo punto è doveroso spiegare il motivo per cui questo film-documentario si trova sul nostro giornale. Il motivo è semplice e straordinario. Mimmo Calopresti ha trovato, in rete, un filmato in Super8 che ritrae un gruppo di ragazzi che gioca a tennis negli anni '70, tutti vestiti di bianco tranne uno, con la maglietta rossa. Quei ragazzi sono nostri compaesani e i campetti sono quelli di San Gavino. L'iter che ha portato questo bel filmato a finire nella pellicola è troppo lungo da raccontare, ma il risultato vale più delle parole. È arrivato, è incastonato là in mezzo, per sempre. È testimonianza di un particolare periodo, di lotte, di sogni. Si amalgama col resto, ma forse ci colpisce di più, essendo parte della nostra storia, della nostra cultura.
Non ci resta che abbandonarci al flusso della cellulosa e goderci questa bellissima storia.
Vorrei porgere un personale saluto a tutti i provetti tennisti presenti nel Super8. Sperando che questo film e questo articolo mantengano viva la memoria del "Panatta" in erba con la maglietta rossa...
Camilla Fois
si sentiva solamente il rumore della palla
contro la racchetta, il rimbalzo e basta.
Adriano Panatta
Introspezione. Questa è la prima parola che mi è venuta in mente a visione ultimata del docu-film "La maglietta rossa" di Mimmo Calopresti (2009). Ma non è l'unica parola applicabile, non può essere l'unica, perché all'interno di questa pellicola sono riscontrabili temi mutevoli e importanti. Il fulcro della storia si svolge nel 1976 durante la finale di Coppa Davis in Cile, allora affossato dalla dittatura del generale Pinochet; in quella occasione Adriano Panatta e il suo compagno di squadra Paolo Bertolucci, decidono di usare una maglietta rossa. La maglietta rossa è un segno di protesta, è un simbolo, contro quel golpe che vide morire Salvador Allende (nel 1973) e lasciò il Cile in balia dell'oppressione.
Ma il film non parla solo di questo, in realtà è un susseguirsi di filmati dell'epoca, di interviste, di testimonianze di quel clima, anche di chi era contrario a quel gesto che tanto fece discutere. "Pinochet sanguinario, Panatta milionario" era lo slogan che riecheggiava allora. Ma oggi passa veloce dinanzi agli occhi, se paragonato a quello che realmente suscitò in tutto il mondo quel gesto audace e discusso. L'inizio ci offre delle immagini random e una vecchia esibizione dei Ribelli con "pugni chiusi", un messaggio di Allende al popolo prima di essere assassinato, filmati dei disordini sbocciati in Italia. Va avanti così, tra il tennis (quello di una volta) e la politica, con interviste a personaggi come Paolo Villaggio, la storia sfuma fino alle immagini su cui si basa la storia, il bianco e nero, con in risalto solo ed esclusivamente la maglietta rossa.
Calopresti è un abile giocatore in regia, riesce a tessere una tela complessa attorno al protagonista che racconta sé stesso. Il gioco di immagini è lento e sapientemente articolato, il risultato emoziona.
A questo punto è doveroso spiegare il motivo per cui questo film-documentario si trova sul nostro giornale. Il motivo è semplice e straordinario. Mimmo Calopresti ha trovato, in rete, un filmato in Super8 che ritrae un gruppo di ragazzi che gioca a tennis negli anni '70, tutti vestiti di bianco tranne uno, con la maglietta rossa. Quei ragazzi sono nostri compaesani e i campetti sono quelli di San Gavino. L'iter che ha portato questo bel filmato a finire nella pellicola è troppo lungo da raccontare, ma il risultato vale più delle parole. È arrivato, è incastonato là in mezzo, per sempre. È testimonianza di un particolare periodo, di lotte, di sogni. Si amalgama col resto, ma forse ci colpisce di più, essendo parte della nostra storia, della nostra cultura.
Non ci resta che abbandonarci al flusso della cellulosa e goderci questa bellissima storia.
Vorrei porgere un personale saluto a tutti i provetti tennisti presenti nel Super8. Sperando che questo film e questo articolo mantengano viva la memoria del "Panatta" in erba con la maglietta rossa...
Camilla Fois
Partendo dalla considerazione, che il numero di atleti tesserati alla Federazione di Arrampicata Sportiva nel 2010, si aggira intorno alle 13.000 unità in tutta Italia, con un picco di 30.000 praticanti pseudo attivi, dubito che la maggior parte dei lettori di questo giornale abbia cognizione certa di cosa s’intenda veramente per Arrampicata Sportiva. Immagino anche che molti di voi considerino tale disciplina un’attività esclusivamente di montagna, ignorando, a tal proposito, che il 3 Dicembre scorso l’Arrampicata Sportiva Indoor è stata inserita nella lista ufficiale dei Giochi Olimpici.
Questo articolo prende in considerazione il concetto puro di Arrampicata e il nascente progetto Sangavinese “Monreal Rock”, con la consapevolezza che spiegare cosa s’intenda per arrampicata in poche righe sia qualcosa di quasi utopistico.
Maurizio Zanolla, meglio conosciuto come Manolo, la definiva come “quell’indescrivibile senso di libertà che la vita sulla punta delle dita mi regala, lontano dall'ipocrisia, e dai giorni tutti uguali”. Per noi, umili mortali, può essere sintetizzata in un semplice seppur fantastico concatenamento di movimenti, finalizzato alla conquista della cima o, come più gergalmente viene chiamata, la “Catena” della via scelta. Perde molta della sua poeticità ma è la realtà. Vorrei, infatti, sfatare il mito della pericolosità dell’arrampicata, definita appunto sportiva e non di suicidio, differenziandola anche dall’Alpinismo o dal Free Solo. L’AS, se fatta in piena coscienza delle norme e dei pochi rischi, è uno sport assolutamente sicuro, non meno del più blasonato calcio o della pallavolo. Si usano attrezzature specifiche con resistenze alla trazione di migliaia di Kg e ci si assicura, in progressione di salita, a fittoni in acciaio inox resinati sulla parete rocciosa, ogni 2\3 metri al massimo, mentre si è costantemente seguiti dal basso.
Ed è proprio qui che entra nel discorso Monreal Rock. Tale compagnia potrebbe essere definita come un gruppo autogestito nato dalla passione, mia e di altri 2 amici, Daniele Fronteddu e Mauro Porceddu, per questa disciplina, grazie anche al sostegno della società di calcetto Campidania e all’aiuto di un nostro vecchio docente, Aldo Serpi, che ci teniamo a ringraziare pubblicamente.
Lo scopo è quello di avvicinare e di insegnare, nei limiti delle nostre conoscenze, tutte le norme e le tecniche da noi apprese nel corso degli anni, senza nessuno scopo di lucro, in un ambiente consono e privo di pericoli. Non molti infatti sanno che alcuni anni fa, una parte dei fondi comunali sono stati spesi per la costruzione, presso le scuole medie di San Gavino, di un piccolo rocciodromo d’arrampicata indoor, costituito da 5 “vie” a struttura in metallo e legno di circa 7 metri, una piccola parete da Allenamento strapiombante di 3 m² e un trave d’arrampicata per le trazioni.
Dal 14 Gennaio 2010 l’associazione ha ridato un consono utilizzo a questo complesso, in disuso per un lungo periodo e, in poco più di un anno, ha indirizzato verso questo sport più di 10 persone, in una regione famosa e apprezzata in tutto il mondo per le proprie falesie.
Come annunciato ci vorrebbero molte altre righe per spiegare veramente ciò che aspiriamo a fare e ciò che vorremmo trasmettervi, ma si spera che voi stessi un giorno abbiate intenzione di provare quelle straordinarie emozioni che solo l’arrampicata può offrire.
Go ride a Rock.
Luca Senis
Questo articolo prende in considerazione il concetto puro di Arrampicata e il nascente progetto Sangavinese “Monreal Rock”, con la consapevolezza che spiegare cosa s’intenda per arrampicata in poche righe sia qualcosa di quasi utopistico.
Maurizio Zanolla, meglio conosciuto come Manolo, la definiva come “quell’indescrivibile senso di libertà che la vita sulla punta delle dita mi regala, lontano dall'ipocrisia, e dai giorni tutti uguali”. Per noi, umili mortali, può essere sintetizzata in un semplice seppur fantastico concatenamento di movimenti, finalizzato alla conquista della cima o, come più gergalmente viene chiamata, la “Catena” della via scelta. Perde molta della sua poeticità ma è la realtà. Vorrei, infatti, sfatare il mito della pericolosità dell’arrampicata, definita appunto sportiva e non di suicidio, differenziandola anche dall’Alpinismo o dal Free Solo. L’AS, se fatta in piena coscienza delle norme e dei pochi rischi, è uno sport assolutamente sicuro, non meno del più blasonato calcio o della pallavolo. Si usano attrezzature specifiche con resistenze alla trazione di migliaia di Kg e ci si assicura, in progressione di salita, a fittoni in acciaio inox resinati sulla parete rocciosa, ogni 2\3 metri al massimo, mentre si è costantemente seguiti dal basso.
Ed è proprio qui che entra nel discorso Monreal Rock. Tale compagnia potrebbe essere definita come un gruppo autogestito nato dalla passione, mia e di altri 2 amici, Daniele Fronteddu e Mauro Porceddu, per questa disciplina, grazie anche al sostegno della società di calcetto Campidania e all’aiuto di un nostro vecchio docente, Aldo Serpi, che ci teniamo a ringraziare pubblicamente.
Lo scopo è quello di avvicinare e di insegnare, nei limiti delle nostre conoscenze, tutte le norme e le tecniche da noi apprese nel corso degli anni, senza nessuno scopo di lucro, in un ambiente consono e privo di pericoli. Non molti infatti sanno che alcuni anni fa, una parte dei fondi comunali sono stati spesi per la costruzione, presso le scuole medie di San Gavino, di un piccolo rocciodromo d’arrampicata indoor, costituito da 5 “vie” a struttura in metallo e legno di circa 7 metri, una piccola parete da Allenamento strapiombante di 3 m² e un trave d’arrampicata per le trazioni.
Dal 14 Gennaio 2010 l’associazione ha ridato un consono utilizzo a questo complesso, in disuso per un lungo periodo e, in poco più di un anno, ha indirizzato verso questo sport più di 10 persone, in una regione famosa e apprezzata in tutto il mondo per le proprie falesie.
Come annunciato ci vorrebbero molte altre righe per spiegare veramente ciò che aspiriamo a fare e ciò che vorremmo trasmettervi, ma si spera che voi stessi un giorno abbiate intenzione di provare quelle straordinarie emozioni che solo l’arrampicata può offrire.
Go ride a Rock.
Luca Senis
Quattro amici. Un camper. Tanta birra. Un viaggio. Se dovessi scegliere poche parole per parlavi del film "Da nessuna parte" forse sceglierei queste, sapendo benissimo di non aver minimamente toccato il nocciolo, ma solo scalfito la superficie. Dei ragazzi di Serramanna, Quadratino Pericoloso, hanno scelto di dedicarsi alla difficile arte cinematografica. Dopo vari cortometraggi approdano a questo mediometraggio, circa un'ora di pellicola, e ci sputano in faccia senza troppi complimenti una storia che odora di vero, che ha il gusto del reale.
E così, tra un italiano intrecciato ad un sardo aspro e volgare, ci ritroviamo a viaggiare con questi quattro giovani ed è facile immedesimarsi con le loro paure, con le loro speranze, con i loro vaneggi. Strade semi deserte, un cielo plumbeo e tanta malinconia saranno i nostri compagni di viaggio. Paesaggi tristi, forzatamente contaminati dalla mano dell'uomo costringono il nostro sguardo tra una sosta e l'altra, come per riprendere fiato tra un'apnea continua, come per non lasciare spazio a nessuna reale speranza.
Scritto da Davide Onnis e diretto da Stefano Schirru questo film riesce a centrare il bersaglio. Consapevoli dei loro mezzi, e perciò anche dei loro limiti, hanno realizzato un film senza eccessive pretese, senza un plot complicato, senza tanti attori, senza... Ma tutte queste mancanze diventano proprio il punto di forza della pellicola: umile ma con una forza travolgente.
Lentamente ci sentiamo cullati da un misto di amarezza e voglia di riscatto, siamo lì anche noi, buttiamo giù quelle birre con la stessa rabbia, con lo stesso spirito dei protagonisti. Un film bello e aspro, che si porta dietro una cicatrice indelebile, un marchio permanente, che traccia tutto il percorso, che impregna tutta l'aria, che non lascia respirare.
Gravido di angoscia, di ansie, a tratti claustrofobico, fa di tutto per farti star male, e spesso ci riesce benissimo, con quel nichilismo alcolico che sembra mettere la firma su ogni scena.
Meglio il Golf o il Calcio? Terry, Gascoigne o Cristo? Questo film, questo viaggio, si muove tra queste domande, tra realtà, fantasia, filosofia e tanta birra. Un'opera che rappresenta appieno la generazione di giovani sardi, perduti in una provincia sempre più priva di stimoli, sempre più abbandonata a se stessa. Ed è da questa stessa provincia da questa stessa situazione che continuano però a nascere progetti interessanti come questo, che sembrano voler scacciare al più presto questa desolante realtà. Su www.quadratinopericoloso.net potete trovare i loro lavori. Vi consiglio vivamente di non perderli.
Potete guardare il film anche qua:
E così, tra un italiano intrecciato ad un sardo aspro e volgare, ci ritroviamo a viaggiare con questi quattro giovani ed è facile immedesimarsi con le loro paure, con le loro speranze, con i loro vaneggi. Strade semi deserte, un cielo plumbeo e tanta malinconia saranno i nostri compagni di viaggio. Paesaggi tristi, forzatamente contaminati dalla mano dell'uomo costringono il nostro sguardo tra una sosta e l'altra, come per riprendere fiato tra un'apnea continua, come per non lasciare spazio a nessuna reale speranza.
Scritto da Davide Onnis e diretto da Stefano Schirru questo film riesce a centrare il bersaglio. Consapevoli dei loro mezzi, e perciò anche dei loro limiti, hanno realizzato un film senza eccessive pretese, senza un plot complicato, senza tanti attori, senza... Ma tutte queste mancanze diventano proprio il punto di forza della pellicola: umile ma con una forza travolgente.
Lentamente ci sentiamo cullati da un misto di amarezza e voglia di riscatto, siamo lì anche noi, buttiamo giù quelle birre con la stessa rabbia, con lo stesso spirito dei protagonisti. Un film bello e aspro, che si porta dietro una cicatrice indelebile, un marchio permanente, che traccia tutto il percorso, che impregna tutta l'aria, che non lascia respirare.
Gravido di angoscia, di ansie, a tratti claustrofobico, fa di tutto per farti star male, e spesso ci riesce benissimo, con quel nichilismo alcolico che sembra mettere la firma su ogni scena.
Meglio il Golf o il Calcio? Terry, Gascoigne o Cristo? Questo film, questo viaggio, si muove tra queste domande, tra realtà, fantasia, filosofia e tanta birra. Un'opera che rappresenta appieno la generazione di giovani sardi, perduti in una provincia sempre più priva di stimoli, sempre più abbandonata a se stessa. Ed è da questa stessa provincia da questa stessa situazione che continuano però a nascere progetti interessanti come questo, che sembrano voler scacciare al più presto questa desolante realtà. Su www.quadratinopericoloso.net potete trovare i loro lavori. Vi consiglio vivamente di non perderli.
Potete guardare il film anche qua:
Da nessuna parte from Quadratino Pericoloso on Vimeo.
Davide Boldrini
Dal 4 al 31 marzo, per la prima volta alcuni writers, sardi e non, si sono riuniti a Cagliari per dare vita a una mostra tanto attesa quanto originale. A ospitare tali opere non sono le mura diroccate di una palazzina nei sobborghi di un quartiere, bensì sono le mura trecentesche del Palazzo Regio.
Le mura di un palazzo storico abbracciano un tipo di arte, si può dire, nuovo: vediamo l’anziano che si avvicina al giovane, ed effettivamente l’impatto è straniante, ma per niente spiacevole.
Gli artisti partecipanti sono tutti giovanissimi (Raba, Crime, Sklero, Skan, Jep, il collettivo Saletta Team, Iem82, Fema, Snuf, Prosa, Invisible, e da Milano Kunos e Shine Royal), ma con già alle spalle una notevole carriera, oltre a essere noti nella sfera street hanno all’attivo collaborazioni con importanti case produttrici e di design.
Vista la loro esperienza, è palese che non sia la prima volta che le loro opere vengano rinchiuse fra quattro mura, ma, sinceramente, vedere questo tipo di arte decontestualizzata dal mondo urbano, dove siamo solitamente abituati a vederla, fa sicuramente uno strano effetto: i messaggi trasmessi sono di differente percezione, ma non per questo meno incisivi.
È straordinario vedere come finalmente, questo nuovo modo di comunicare, sia uscito dalla denominazione di “vandalismo”, e venga accettato e apprezzato per quello che effettivamente è: vera e propria arte.
Entriamo nella Sala e le mura dagli stucchi dorati e arzigogolati fanno da cornice a un'esplosione di colori acrilici sgargianti, creando un contrasto dal forte impatto visivo spiazzante, ma che immediatamente si trasforma in un'unione ben riuscita tra due mondi opposti: l’arte barocca non è più la protagonista, ma è un elemento di sfondo.
L’esposizione accoglie tutte le tecniche della Street Art: dal murale allo stencil, dalla pittura spray alla fotografia, dai toys alla semplice matita. Un’eterogeneità che ci fa capire quanto sia ancora poco conosciuta quest’arte, e soprattutto quanto sia stata importante un'iniziativa del genere.
All’interno della mostra non vi è un percorso prestabilito, ma si da la possibilità al visitatore di girare in piena libertà e crearsi il proprio “viaggio” personale.
Camminando per le sale, nonostante le luci discutibili, vediamo come le opere balzino immediatamente dai loro supporti, come se questi fossero delle catene che li imprigionano. Il visitatore è circondato da immagini di città fantastiche degradate; mani con ali di mosca sopra un tavolo; organi del corpo umano disegnati su delle abat-jour; in una stanza non si è mai soli, perché si è sempre accompagnati da una simpatica e elegante “ombra” con il cappello...insomma, un ambiente surreale pervade l’intera mostra, lasciando incuriositi e, quando questo cammino giunge al termine, delusi per la precoce fine.
Speriamo davvero che questa iniziativa non sia solo una piccola virgola nel mondo dell’Arte ufficiale, ma che si faccia sempre più spazio in questo ambiente, a volte, un po’ troppo elitario.
Giorgia Matzeu
Le mura di un palazzo storico abbracciano un tipo di arte, si può dire, nuovo: vediamo l’anziano che si avvicina al giovane, ed effettivamente l’impatto è straniante, ma per niente spiacevole.
Gli artisti partecipanti sono tutti giovanissimi (Raba, Crime, Sklero, Skan, Jep, il collettivo Saletta Team, Iem82, Fema, Snuf, Prosa, Invisible, e da Milano Kunos e Shine Royal), ma con già alle spalle una notevole carriera, oltre a essere noti nella sfera street hanno all’attivo collaborazioni con importanti case produttrici e di design.
Vista la loro esperienza, è palese che non sia la prima volta che le loro opere vengano rinchiuse fra quattro mura, ma, sinceramente, vedere questo tipo di arte decontestualizzata dal mondo urbano, dove siamo solitamente abituati a vederla, fa sicuramente uno strano effetto: i messaggi trasmessi sono di differente percezione, ma non per questo meno incisivi.
È straordinario vedere come finalmente, questo nuovo modo di comunicare, sia uscito dalla denominazione di “vandalismo”, e venga accettato e apprezzato per quello che effettivamente è: vera e propria arte.
Entriamo nella Sala e le mura dagli stucchi dorati e arzigogolati fanno da cornice a un'esplosione di colori acrilici sgargianti, creando un contrasto dal forte impatto visivo spiazzante, ma che immediatamente si trasforma in un'unione ben riuscita tra due mondi opposti: l’arte barocca non è più la protagonista, ma è un elemento di sfondo.
L’esposizione accoglie tutte le tecniche della Street Art: dal murale allo stencil, dalla pittura spray alla fotografia, dai toys alla semplice matita. Un’eterogeneità che ci fa capire quanto sia ancora poco conosciuta quest’arte, e soprattutto quanto sia stata importante un'iniziativa del genere.
All’interno della mostra non vi è un percorso prestabilito, ma si da la possibilità al visitatore di girare in piena libertà e crearsi il proprio “viaggio” personale.
Camminando per le sale, nonostante le luci discutibili, vediamo come le opere balzino immediatamente dai loro supporti, come se questi fossero delle catene che li imprigionano. Il visitatore è circondato da immagini di città fantastiche degradate; mani con ali di mosca sopra un tavolo; organi del corpo umano disegnati su delle abat-jour; in una stanza non si è mai soli, perché si è sempre accompagnati da una simpatica e elegante “ombra” con il cappello...insomma, un ambiente surreale pervade l’intera mostra, lasciando incuriositi e, quando questo cammino giunge al termine, delusi per la precoce fine.
Speriamo davvero che questa iniziativa non sia solo una piccola virgola nel mondo dell’Arte ufficiale, ma che si faccia sempre più spazio in questo ambiente, a volte, un po’ troppo elitario.
Giorgia Matzeu
Nucleare, Nucleare e Nucleare. Da mesi ormai nel nostro Paese il dibattito sull’energia ha invaso giornali e TV, portando con sé informazioni spesso contraddittorie, strumentali, eccessivamente mirate a (ri)proporre e valorizzare un progetto energetico datato e obsoleto, che già una volta venne bocciato nell'ormai lontano 1987. Domandiamoci innanzitutto “cosa è l’Energia Nucleare?”.
Beh, non è semplice da spiegare in poche righe, ma si tratta sostanzialmente di energia generata dal susseguirsi di particolari reazioni fisiche che coinvolgono gli atomi di elementi come l’uranio o il plutonio. Immaginate delle lunghe barre contenenti questo materiale, immerse nell’acqua, il tutto portato a temperature elevatissime; infine immaginate enormi quantità di vapore che in parte azionano delle turbine che a loro volta generano corrente elettrica. Un fisico o un ingegnere storceranno giustamente il naso leggendo queste parole, ma credo di aver reso l’idea. Fin qui potreste dire “sembra che l'unico rifiuto che prodotto sia il vapore”, sbagliato. Ricordate le barre che vi ho chiesto di immaginare? Una volta esaurite diventano altamente radioattive, comunemente conosciute come “scorie radioattive”. Questo è il problema, anzi, direi il pericolo più grande che le centrali producono. Si tratta di barre di uranio caratterizzate da letali livelli di radioattività, il cui contatto con qualunque essere vivente è causa di tumori, leucemie e malattie genetiche di varia natura. Vi starete domandando “beh, esisterà un modo per eliminarle o riciclarle”. No, sbagliato di nuovo. Non esiste tutt’ora alcuna soluzione, e l'unico espediente finora individuato è quello di conservarle in barili di latta sigillati e buttarle in discariche scavate nella roccia granitica, o in vecchie miniere. Immaginate Montevecchio riempito di barili tossici. Sicuramente non sarebbe un bello spettacolo. Al tutto aggiungete che, in media, la radioattività cessa dopo circa 1000 anni. In sostanza è la peggior forma di rifiuto che possiate immaginare. Di questo aspetto se ne parla poco, ma è questo il nocciolo della questione, il problema dello smaltimento delle scorie radioattive. Pensate che oggi in Italia non sono ancora state stoccate del tutto quelle prodotte dalle 4 centrali attive fino al 1987. Si parla di decine di migliaia di fusti tossici nocivi, che di fatto non sappiamo dove mettere.
Ma non è tutto. Vogliamo parlare dei costi? Si tratta di un investimento enorme, che richiede tempi lunghissimi per l’ammortamento. Riflettete sul fatto che non esista di fatto un settore privato disposto ad accollarsi per intero i costi per la costruzione delle centrali, proprio in virtù di margini di profitto molto sfumati in confronto a costi di fatto elevatissimi. Ecco perché solo con forti incentivi e investimenti Statali, con conseguente “scarico” del costo sui contribuenti, è ipotizzabile lo sviluppo di impianti Nucleari sul territorio. Non solo, ma se pensate che il Nucleare porterà un abbassamento dei costi energetici siete sulla strada sbagliata. Dati alla mano è dimostrato che il costo medio di 1Kilowatt prodotto da una centrale nucleare è vicinissimo a quello di centrali che usano combustibili fossili, con la differenza che il Nucleare produce soprattutto scorie radioattive, ripeto impossibili da smaltire.
La lista di criticità potrebbe essere ben più lunga ma mi fermo qua. Di fatto non esiste una qualche motivazione razionale per volere, nel 2011, affidarsi a una fonte energetica come quella Nucleare; risulta ancora più fuori da ogni logica se pensiamo all'enorme sviluppo che sta avendo il settore delle energie rinnovabili, su cui per esempio investono con lungimiranza la Germania e la Cina.
Di fronte a tutto ciò vi chiediamo di unirvi a noi e il 15 maggio, giorno del referendum abrogativo, votate Sì per fermare il nucleare.
Massimo Manno
Il recente vento di rivolta che spira in tutto il nord Africa, e che ha portato in Libia a un sanguinoso conflitto interno e poi a un ormai definibile “classico” intervento dei Paesi “civili” occidentali, approvato sia dalla destra sia dalla sinistra italiana, ha portato fra le prime conseguenze una massiccia onda di immigrazione verso le coste europee. Essendo a un passo dallo scenario di questa tragedia umanitaria, ovviamente le coste siciliane (in particolare quelle dell'isola di Lampedusa) sono state la meta di centinaia di profughi. Per far fronte alla situazione, oggettivamente difficile per un'isoletta del Mediterraneo, i vari enti locali italiani si sono detti disponibili ad accogliere una parte di tali disperati.
È corsa la voce, supportata dal più “autorevole” quotidiano sardo, che anche il Comune di San Gavino avesse dato la propria disponibilità. Leggendo l'articolo, la mattina presto mi è venuto da pensare: “Ecco, finalmente l'occasione per dimostrare di essere un paese accogliente e solidale”. Una pia illusione, sfumata qualche ora dopo, quando sul più noto dei social network mi sono imbattuto in alcuni commenti su questa notizia. Commenti che non mi spaventa accostare alla più becera propaganda leghista.
“Pensiamo prima ai nostri compaesani bisognosi”, “Già non c'è lavoro per noi, figuriamoci spendere soldi per loro”, “Li mandino a Villacidro o a Sanluri ma non qui”, “All'estero noi italiani veniamo trattati male, non vedo perché io dovrei trattare bene loro” e tanti altri commenti del genere danno un'idea abbastanza precisa di come la paura del diverso e l'egoismo alberghino nel cuore di una gran parte dei nostri compaesani. Il tutto condito dal luogo comune preferito da chi fa questi discorsi “Io non sono razzista, però....”. Le argomentazioni a supporto di queste teorie sono vuote, basate sul pensare al proprio orticello sperando di non doversi trovare, un giorno, in situazioni simili; oppure sul terrore, basato su ragionamenti al limite della fantascienza, secondo i quali TUTTI i profughi siano in realtà dei malviventi fuggiti dalle carceri nordafricane che non cercano altro che un nuovo terreno sul quale installare il proprio impero criminale.
Personalmente, e a nome della redazione di Agitòriu e di tutta l'associazione Kenemèri, non posso fare altro che stigmatizzare questi ragionamenti, queste prese di posizione degne di movimenti xenofobi e razzisti. Provo enorme tristezza nel vedere che dei principi come quello dell'accoglienza e della solidarietà, pilastri della mia formazione personale, abbiano lo stesso valore della carta igienica per molti dei miei compaesani. E ne provo vergogna.
Ho sperato di vedere realizzata una convivenza civile basata su questi principi. Ritengo che dimostrarsi solidali con chi sta vivendo situazioni a dir poco tragiche debba essere un obbligo morale che vada al di là di ogni egoismo e paura: questi sono i veri problemi, non la distinzione tra “rifugiati libici” e “clandestini tunisini”. Chi in queste ore sta scappando dal proprio Paese lo fa per salvarsi da una situazione terribile e per cercare delle condizioni di vita migliori.
Il rispetto per la loro situazione deve portarci ad accoglierli, e, una volta accolti, a non bollarli come delinquenti a priori. Il reato di clandestinità va contro ogni logica storico-sociale e rende un criminale chiunque sia talmente disperato da affidarsi a un barcone pur di migliorare la propria vita.
Rinchiudere questi disperati in tendopoli in cui manca tutto, veri e propri campi di concentramento, è parimenti segno di inciviltà. E non c'è da stupirsi se qualcuno tenta di fuggire o addirittura di delinquere. L'esasperazione è un sentimento difficile da controllare. La fame altrettanto.
Penso che sarebbe molto più semplice se i migranti (e questo vale per tutti, sia gli italiani o i sardi che soprattutto nel '900 hanno lasciato la propria casa, sia per i nordafricani che arrivano in questi giorni qui da noi) fossero accolti con sentimenti diversi dalla diffidenza, dalla paura, dall'ignoranza e dall'odio. Si ha paura che chi arriva ci porti via quel poco che abbiamo, ma è un problema culturale ancor prima che economico: se fossimo pronti a metterci in discussione, a condividere le risorse e le esperienze forse potremmo tendere a una convivenza pacifica e rispettosa. Senza dover cadere nell'ipotesi della creazione di una cultura universale, che fortunatamente non può esistere, ma arricchendoci col confronto. La diversità è la vera ricchezza, che, unita al rispetto può portare alla soluzione di situazioni difficili come quella che si sta vivendo in queste settimane.
A distanza di poche ore dall'aver letto la notizia, è arrivata la smentita della voce riguardante la disponibilità data da S. Gavino; il primo pensiero che ho avuto è che abbiamo perso una grande occasione di renderci UTILI.
Stefano Pau
È corsa la voce, supportata dal più “autorevole” quotidiano sardo, che anche il Comune di San Gavino avesse dato la propria disponibilità. Leggendo l'articolo, la mattina presto mi è venuto da pensare: “Ecco, finalmente l'occasione per dimostrare di essere un paese accogliente e solidale”. Una pia illusione, sfumata qualche ora dopo, quando sul più noto dei social network mi sono imbattuto in alcuni commenti su questa notizia. Commenti che non mi spaventa accostare alla più becera propaganda leghista.
“Pensiamo prima ai nostri compaesani bisognosi”, “Già non c'è lavoro per noi, figuriamoci spendere soldi per loro”, “Li mandino a Villacidro o a Sanluri ma non qui”, “All'estero noi italiani veniamo trattati male, non vedo perché io dovrei trattare bene loro” e tanti altri commenti del genere danno un'idea abbastanza precisa di come la paura del diverso e l'egoismo alberghino nel cuore di una gran parte dei nostri compaesani. Il tutto condito dal luogo comune preferito da chi fa questi discorsi “Io non sono razzista, però....”. Le argomentazioni a supporto di queste teorie sono vuote, basate sul pensare al proprio orticello sperando di non doversi trovare, un giorno, in situazioni simili; oppure sul terrore, basato su ragionamenti al limite della fantascienza, secondo i quali TUTTI i profughi siano in realtà dei malviventi fuggiti dalle carceri nordafricane che non cercano altro che un nuovo terreno sul quale installare il proprio impero criminale.
Personalmente, e a nome della redazione di Agitòriu e di tutta l'associazione Kenemèri, non posso fare altro che stigmatizzare questi ragionamenti, queste prese di posizione degne di movimenti xenofobi e razzisti. Provo enorme tristezza nel vedere che dei principi come quello dell'accoglienza e della solidarietà, pilastri della mia formazione personale, abbiano lo stesso valore della carta igienica per molti dei miei compaesani. E ne provo vergogna.
Ho sperato di vedere realizzata una convivenza civile basata su questi principi. Ritengo che dimostrarsi solidali con chi sta vivendo situazioni a dir poco tragiche debba essere un obbligo morale che vada al di là di ogni egoismo e paura: questi sono i veri problemi, non la distinzione tra “rifugiati libici” e “clandestini tunisini”. Chi in queste ore sta scappando dal proprio Paese lo fa per salvarsi da una situazione terribile e per cercare delle condizioni di vita migliori.
Il rispetto per la loro situazione deve portarci ad accoglierli, e, una volta accolti, a non bollarli come delinquenti a priori. Il reato di clandestinità va contro ogni logica storico-sociale e rende un criminale chiunque sia talmente disperato da affidarsi a un barcone pur di migliorare la propria vita.
Rinchiudere questi disperati in tendopoli in cui manca tutto, veri e propri campi di concentramento, è parimenti segno di inciviltà. E non c'è da stupirsi se qualcuno tenta di fuggire o addirittura di delinquere. L'esasperazione è un sentimento difficile da controllare. La fame altrettanto.
Penso che sarebbe molto più semplice se i migranti (e questo vale per tutti, sia gli italiani o i sardi che soprattutto nel '900 hanno lasciato la propria casa, sia per i nordafricani che arrivano in questi giorni qui da noi) fossero accolti con sentimenti diversi dalla diffidenza, dalla paura, dall'ignoranza e dall'odio. Si ha paura che chi arriva ci porti via quel poco che abbiamo, ma è un problema culturale ancor prima che economico: se fossimo pronti a metterci in discussione, a condividere le risorse e le esperienze forse potremmo tendere a una convivenza pacifica e rispettosa. Senza dover cadere nell'ipotesi della creazione di una cultura universale, che fortunatamente non può esistere, ma arricchendoci col confronto. La diversità è la vera ricchezza, che, unita al rispetto può portare alla soluzione di situazioni difficili come quella che si sta vivendo in queste settimane.
A distanza di poche ore dall'aver letto la notizia, è arrivata la smentita della voce riguardante la disponibilità data da S. Gavino; il primo pensiero che ho avuto è che abbiamo perso una grande occasione di renderci UTILI.
Stefano Pau
Ecco i nostri contatti:
Il blog dell'associazione Kenemèri
Il profilo di Facebook
L'email: kenemeri_chiocciola_yahoo.it
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Agitòriu! La nostra non è una richiesta d'aiuto. Forse più un'esclamazione disperata sulle condizioni della cultura. O forse è semplicemente una richiesta (immotivata?) di attenzione. Dopo un anno di attività, noi dell'Associazione Culturale Kenemèri sentivamo il bisogno, la necessità, di avere un nuovo canale di espressione. Questo numero zero di Agitòriu rappresenta la voglia di raccontare il mondo culturale che ci sta accanto, ma che sempre più spesso rimane sommerso.
A noi basterebbe che anche solo una persona dopo aver letto qualche riga su questi fogli, si avvicinasse ad un evento/associazione/mondo culturale, per essere soddisfatti, per aver raggiunto l'"obiettivo".
Non nascondiamo che questo giornale è anche un modo per pubblicizzare le altre iniziative che l'associazione porta avanti: siamo ormai arrivati alla settima puntata di Radio K240, la nostra radio online ascoltabile e scaricabile sul blog kenemeri.blogspot.com, e continuiamo a impegnarci nell'organizzazione di eventi culturali e di interazione sociale.
E così andiamo avanti, verso un nuovo anno, sicuramente pregno di sorprese, di novità, di esperienze, di...
Ass.Cult. Kenemèri